Chi lotta non è mai solo

I fatti nell’ex Caserma “Serena” di Treviso

Tra i mesi di giugno e luglio 2020 l’ex Caserma “Serena” di Treviso, oggi adibita a Centro di accoglienza straordinario (C.a.s.) per richiedenti asilo, è travolta da una serie di rivolte che scoppiano a più riprese per denunciare la gestione dell’emergenza Covid. La struttura è in mano alla cooperativa Nuova Facility: volto noto tra gli enti che speculano sulle vite dei migranti, già titolare dell’appalto dell’hotspot di Lampedusa così come dell’Hub di Via Mattei a Bologna. Le precarie condizioni all’interno del C.a.s. sono risapute da tempo, il diffondersi della pandemia e il conseguente lock-down non fanno altro che acutizzare la tensione, rendendo insostenibile la sopravvivenza. A periodi il numero di persone stipate negli spazi dell’ex caserma raggiunge quota 300, senza il rispetto di alcuna precauzione in grado di prevenire i contagi. E’ inevitabile che nel giro di poco tempo il virus entri nella struttura e arrivi a infettare centinaia di persone, che divengono a tutti gli effetti prigionieri del C.a.s. Attorno a questa situazione esplodono le proteste che nei mesi estivi infiammano gli stabili del centro di accoglienza. La repressione non tarda a farsi sentire, quando il 19 agosto vengono arrestati 4 ragazzi: Abdourahmane, Mohammed, Amadou e Chaka considerati i “capi” promotori delle rivolte. Le accuse a loro carico sono molto pesanti e vanno dalla devastazione e saccheggio fino al sequestro di persona. I 4 dapprima vengono portati nel carcere di Treviso e in un secondo momento, dopo circa un mese e su ordine del Ministero dell’Interno, sono sparpagliati nei penitenziari del Veneto. Per tutti è disposto il regime di sorveglianza particolare istituito dall’articolo 14 bis, che prevede l’isolamento del singolo dentro al carcere. Una misura di per sé punitiva, volta a isolare ulteriormente i detenuti considerati “pericolosi” per l’ordine e la disciplina interna alle galere. La fine di questa amara vicenda assume un risvolto ancora più drammatico: lo scorso 7 novembre, Chaka, il più giovane dei 4 ragazzi arrestati, viene trovato morto nella sua cella nel carcere di Verona. Poco viene detto su di lui, la sua fine è liquidata come suicidio e poi tutto tace. Ad oggi Amadou si trova richiuso nel carcere di Vicenza, Mohammed in quello di Treviso e Abdou è riuscito ad ottenere gli arresti domiciliari. Il prossimo 1 aprile avrà inizio il processo per i fatti dell’ex Caserma “Serena”.

Rivolte nelle carceri

Sono 14 in totale i detenuti morti durante le rivolte esplose nel marzo del 2020 allo scoccare del primo lockdown da Covid 19: 9 le persone decedute nel solo carcere di Modena, gli altri tra gli istituiti di Bologna e Rieti. La propaganda ufficiale ha subito attribuito le morti a overdose, diffondendo la notizia che i detenuti avevano assaltato le farmacie del penitenziario in preda alla disperazione. Ben diversa è la versione che lo scorso 20 novembre 5 detenuti hanno presentato con un esposto in procura ad Ancona, relativamente alla protesta nel carcere di Modena. La descrizione dei fatti è lontana da quella trasmessa nelle narrazioni mainstream: dal racconto dei prigionieri, infatti, emergono pestaggi, vessazioni, omissioni e si parla di Salvatore Piscitelli lasciato morire in seguito alle violenze della polizia penitenziaria. Dopo l’esposto i 5 detenuti vengono trasferiti nuovamente a Modena, messi in celle liscie, con vetri rotti e coperte bagnate. Successivamente vengono separati in 5 città tra Parma, Piacenza, Ferrara, Ancona, Reggio Emilia.

Un filo rosso lega i fatti della caserma “Serena” con la situazione nelle carceri. Storie prese da differenti punti di vista, che pur condividono alcuni comuni denominatori: protagoniste sono sempre persone private della libertà, stipate in condizioni di sovraffollamento, in assenza di igiene e sicurezza, senza essere informati su ciò che sta succedendo e obbligate solo ad obbedire, oggetto di soprusi, ritorsioni, violenze fisiche e psicologiche. Storie che a loro volta parlano di repressione, trattamenti punitivi per chi si ribella e condividono come epilogo delle morti nelle patrie galere, morti a tutti gli effetti per mano dello Stato.

Impedire che questi ragazzi vengano isolati significa sostenere chi, nonostante le sbarre, ha denunciato le angherie subite e lotta per migliorare le condizioni di tutti i prigionieri.

Non lasciare soli questi ragazzi è oggi necessario per dare forza alle loro rivendicazioni e far sì che la loro voce non resti sepolta.

Per Chaka e per tutti i morti nelle carceri di Stato